
Senza Bavaglio
Milano, 6 settembre 2025
«Ma come fa il Corriere a chiedere lo stato di crisi con i conti ultra positivi di RCS?». La replica sta in una prassi avviata nei primi Duemila: lo stato di crisi “prospettico”. Il precedente più istruttivo è Mondadori: tra 2010 e 2017 il gruppo alterna chiusure/cessioni e riorganizzazioni a indicatori economici in risalita, eppure prosegue con ammortizzatori e “stagioni” di esuberi.

Il meccanismo è semplicissimo quanto geniale: si invoca la crisi “in prospettiva”, si allarga la platea degli esuberi, scatta il contratto di solidarietà (taglio degli stipendi finanziato in parte dallo Stato) e, dove serve, la cassa integrazione; si dosano i prepensionamenti. La redazione, alleggerita, continua a produrre ricorrendo sempre più a esterni abusivi e sottopagati. Con un risultato costante: risparmio sul costo del lavoro per l’editore, copertura pubblica per i tagli, indici di margine in miglioramento.
C’è un episodio che fotografa bene l’architettura culturale di quella stagione. In un’assemblea decisiva, i membri del Comitato di redazione presentarono scenari drammatici sul futuro, sostenendo che i conti non consentivano alternative.
Quelle previsioni non vennero elaborate dal sindacato con fondi propri: furono commissionate (e pagate) dall’azienda a uno studio esterno, “così da non intaccare il tesoretto del sindacato”. Il CdR le fece proprie, presentandole come base “tecnica” per giustificare lo stato di crisi, la solidarietà e la riduzione strutturale degli organici. Morale: un documento aziendale travestito da perizia neutrale, veicolato dal sindacato interno, per convincere i giornalisti che il sacrificio era inevitabile.
Mentre gli ammortizzatori scorrono, le presentazioni agli investitori mostrano EBITDA in crescita su più trimestri e ritorno all’utile; il quadro che emerge dagli atti è quello di una ristrutturazione in attivo: la crisi diventa strumento ordinario di gestione, non emergenza temporanea. Intanto il catalogo si assottiglia. Dalla fine anni 2000 si susseguono chiusure/cessioni a catena di testate storiche e verticali (da Auto Oggi a Panorama Economy, da Panorama Travel a Men’s Health, fino alle linee Gruner+Jahr/Mondadori).
Se il parametro per attivare gli aiuti diventa “prospettico”, allora non stupisce che un editore con conti positivi chieda comunque lo stato di crisi. Mondadori ha mostrato che si può ristrutturare in attivo, spingere su prepensionamenti e solidali, esternalizzare una fetta crescente di lavoro mentre l’EBITDA sale.
È la stessa logica che oggi rende opaco il dibattito sul Corriere: non un abuso estemporaneo, ma la conseguenza diretta di regole e prassi varate negli anni Duemila e poi allentate con gli “indici prospettici”. Alla fine della fiera, i numeri dicono che tra 2011 e 2017 gli indicatori economici migliorano mentre la gestione degli esuberi perdura.
Per restare a Segrate, che resta il fulcro della vicenda, nell’arco 2009–2014 si chiudono o cedono oltre una dozzina di testate, molte storiche; il saldo dei primi anni Dieci del Duemila è di oltre 20 testate in meno. Senza dimenticare che gli esuberi al 20% diventano la soglia “ottimale” per massimizzare risparmi e integrazioni, e il lavoro giornalistico viene sostituito da collaborazioni “a basso costo”, anche stabili in redazione. E dai 512 giornalisti del 2008, si è arrivati alle poche decine di oggi.
Arrivano anche nuovi lanci low-cost (Giallo Zafferano cartaceo, Il mio Papa, Spy, le ultime due con vita molto breve) senza nuove assunzioni giornalistiche, con pesante uso di esterni, salvo il rientro di due elementi ripescati dalla liquidazione di Aci-Mondadori, con un sistema ancora da chiarire, ma sicuramente non cristallino, che ha penalizzato altri colleghi che avevano i medesimi requisiti.
Quindici anni fa il perimetro periodici contava decine di testate, con Epoca, Panorama, Grazia come architravi del racconto nazionale. Oggi l’ammiraglia è Chi: il passaggio dal generalista d’autore al people spiega meglio di un bilancio la mutazione genetica dell’offerta.
Qui sta il punto politicamente più scomodo. In Mondadori il sindacato interno/CdR è spesso passato dalla denuncia formale alla gestione condivisa con l’azienda. Ha sposato previsioni catastrofiche prodotte e finanziate dall’editore. Ha firmato accordi che estendevano la solidarietà a tappeto, penalizzando anche i non esuberi con tagli generalizzati di stipendio.
Ha accettato CIG a rotazione e prepensionamenti come soluzione strutturale. Ha sacrificato giornalisti e intere redazioni senza muovere un dito, contando sempre sul fatto che pochi possono salvarne molti. Anche se pochi per volta, sono diventati una marea, e il nucleo è ora composto da un manipolo di poche decine di giornalisti.
Senza dimenticare che il Cdr ha sostenuto soluzioni suggerite dalle Risorse Umane spesso contro gli interessi immediati dei giornalisti (perdita salariale, impoverimento professionale, uscita dal perimetro), anche usando metodi al limite del penale.
Risultato: chi doveva difendere i lavoratori ha spesso normalizzato la politica del taglio, trasformando gli esuberi in leva permanente. È così che l’“aiuto pubblico” diventa bancomat: utile all’azienda, neutro (o dannoso) per la qualità del lavoro e del prodotto.
Ma non basta, perché l’euforia di avere trovato il grimaldello per sfruttare al meglio l’idea, fece perdere di vista il senso della misura. Così, nel pieno della gestione a “crisi prospettica”, con ammortizzatori e tagli in corso, dagli incontri con gli investitori filtra un quadro in miglioramento.
È in questo contesto che — a giugno 2017 — l’ad Ernesto Mauri, l’artefice della Waterloo di Mondadori France, parla apertamente di obiettivo dividendo: «faremo di tutto per avere numeri tali da consentire la distribuzione di un dividendo a fine anno… con i numeri del semestre stiamo andando verso quella direzione». Difficile definire con termini non volgari con che faccia si arrivò a proporre questa soluzione.
L’ipotesi, poi rientrata di fronte alle proteste, rende plastico il paradosso: si chiedono aiuti pubblici e sacrifici salariali mentre si sfiora la remunerazione degli azionisti. Visto che è stata dimenticata, vale la pena di ricordare i dettagli dell’operazione Mondadori France, che era iniziata con proclami che ricordano da vicino quelli della scalata di Rte a ProsiebenSat: “serve un cambio di passo, adesso facciamo vedere noi come si fa!” I risultati? L’acquisizione del pacchetto Emap, denominato Mondadori France costò nel 2006 551 milioni di euro. 12 anni e 11 mesi più tardi, quello che restava di quel progetto portò alla casse del Gruppo Mondadori 70 milioni (cash-free/debt-free) + un earn-out fino a 5 milioni di euro.
Con una perdita netta di quasi mezzo miliardo di euro, che incideva ben più di quanto previsto dalla crisi prospettica, e fu scaricato direttamente su testate, redazioni e giornalisti.
Se la porta resta aperta sugli “indici prospettici”, non stupisce che un editore con conti positivi chieda lo stato di crisi. Mondadori ha dimostrato che è possibile ristrutturare mentre gli indicatori migliorano. Ma anche tenere gli esuberi a un livello “ottimale” per massimizzare risparmi e incentivi – un’alchimia nella quale a Segrate potrebbero scrivere trattati – e ridurre il perimetro e abbassare i costi editoriali a spese della collettività. Il caso Corriere è la conseguenza, non l’eccezione, anche se irrispettoso, è come confrontare il pugno di Mike Tyson e la carezza del Papa. O, ancora meglio, Totò Riina e un “pickpocket”
Alla fine, il danno non è solo contabile: è culturale. Un sistema che usa gli esuberi come tecnica di margine e riduce l’offerta fino a svuotare la fascia alta del mercato è un sistema che smonta il giornalismo pezzo dopo pezzo.
Quando l’ammortizzatore diventa modello di business, la redazione non è più il cuore del giornale: è una variabile di costo. Se oggi ci indigniamo per la richiesta del Corriere, ricordiamo che la porta è stata spalancata vent’anni fa. E che il prezzo non lo ha pagato solo l’INPGI o lo Stato: lo hanno pagato i lavoratori (con stipendi tagliati e carriere svanite nel nulla) e i lettori (con giornali più poveri). Il giornalismo non è un centro di costo da ottimizzare “in prospettiva”: o torna centro di progetto, oppure la crisi smetterà di essere un’emergenza per diventare — com’è già diventata — politica industriale permanente.
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