INPGI/Consigli per sciogliere il rebus dell’INPGI

Pino Nicotri
Domani 2 luglio al Circolo della Stampa di Milano i consiglieri d’amministrazione lombardi dell’Inpgi spiegheranno cosa ha proposto al governo nei giorni scorsi, vale a dire il progetto di modifica delle prestazioni erogate dall’Istituto. Compreso un taglio delle pensioni non solo future, ma anche di quelle già in essere, cioè pagate ogni mese a chi ne ha diritto.

Tagli per le pensioni “d’oro”, per quelle diciamo d’argento e anche per quelle di latta, tagli più pesanti per le prime e più leggere per le seconde e terze. Ma sempre tagli. Il che significa, tra l’altro, che non erano propriamente esatte le assicurazioni date più volte negli ultimi anni e anche in tempi recenti dalla presidenza che “i conti dell’Inpgi sono stati messi in sicurezza”. Un comunicato – lo ricordiamo tutti – li dava “in sicurezza per i prossimi 50 anni”.

E’ purtroppo necessaria una premessa: in un Paese democratico calpestare, ignorare o aggirare le sentenze della Corte Costituzionale equivale a un vero e propio colpo di Stato strisciante, anche se “bianco”. Significa, infatti, imboccare una strada molto pericolosa: se si calpestano, ignorano o aggirano anche altre sentenze della Corte, è evidente che di fatto si abolisce la Costituzione o se ne depennano intanto gli articoli sgraditi ai governi in carica.

Duole che siano un governo che si dice di centro sinistra e un partito che si dice di sinistra a mettere in mora le decisioni della Corte Costituzionale. Il governo in carica è quello di Matteo Renzi, dove il PD è o dovrebbe essere l’azionista di riferimento, e il governo non solo si ostina a ignorare che la Corte ha dichiarato illegittimo il blocco della perequazione delle pensioni deciso da vari ultimi governi, ma anzi in tema di perequazione delle pensioni ha deciso di fare anche di peggio.

Tanto che l’Inpgi si sente legittimata a proporre riforme, argomento che dovrebbe spettare al parlamento e non all’Istituto: quest’ultimo infatti in tema di pensioni ha il compito di limitarsi a pagarle, nella misura determinata dalle vigenti leggi, e non di cambiare le carte in tavola a seconda di come va il suo bilancio. L’Inpgi non è il panettiere o il salumiere o la fabbrica della Nutella, che per risparmiare possono mettere meno farina, meno carne e meno cacao nei loro rispettivi prodotti. Su questo argomento sta conducendo una dura battaglia Franco Abruzzo, ex presidente di lungo corso dell’Ordine dei giornalisti di Milano, presidente dell’Unione Pensionati per l’Italia (Unpit) e opinionista di Blitz.

Tutto ciò doverosamente premesso, è vero che a mettere in difficoltà il bilancio dell’istituto previdenziale dei giornalisti è l’attuale andazzo occupazionale del settore, ma è anche vero che le difficoltà sono dovute anche a fattori preesistenti. Che, se rimossi, possono evitare misure drastiche, almeno quelle illegittime in quanto non di competenza dell’Istituto. Vediamo qualche fattore preesistente:

1) – Fare da ammortizzatore per gli editori quando questi licenziano o prepensionano. La Rai spesso assumeva con contratto a termine, poi licenziava perché tanto l’Inpgi per un periodo non breve pagava il sussidio di disoccupazione ai licenziati e li riassumeva di nuovo con un altro contratto a termine quando il periodo del sussidio finiva, per poi ricominciare il giochino. Praticato peraltro non solo dalla Rai.

2) – Accettare gli “stati di crisi” anche degli editori i cui bilanci sono in attivo, come per esempio quelli del gruppo L’Espresso.

3) – Dover pagare la pensione a parlamentari, consiglieri regionali, ecc., versando per loro di tasca propria dell’Istituto (cioè nostra) almeno parte dei contributi, detti per questo figurativi.

4) – La pessima abitudine esistente quando vigeva il sistema retributivo di promuovere i giornalisti a una qualifica superiore poco prima che andassero in pensione, in modo da fare avere loro una pensione migliore. Che li ripagasse della magra retribuzione nel giornale nel quale avevano lavorato.

5) – Il dover sopportare gli oneri della legge Mosca ( http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/pensioni-doro-cosa-e-la-legge-mosca-del-1974-napolitano-risponda-2160004/ ), legge del 1974 che prende il nome da Giovanni Mosca, deputato socialista e, in precedenza, leader della Cgil. La “leggina” fu presentata per sanare la situazione di qualche centinaio di persone, che nel dopoguerra avevano lavorato per sindacati o partiti politici più o meno in nero, cioè senza che a loro nome fossero stati versati all’Inps i contributi dovuti. Bastava una semplice dichiarazione del rappresentante nazionale del sindacato o del partito e si potevano riscattare, a costo risibile, interi decenni di attività, a partire dagli anni ’50.

Proroga dopo proroga la legge Mosca è diventata non solo una sanatoria per poche centinaia di persone, ma un bengodi per quasi 40mila lavoratori – reali o presunti – di sindacati e partiti politici. Pensioni facili, facilissime. Che hanno procurato alle casse dell’Inps un aggravio valutato in 10 miliardi dì euro. Tra i beneficiati dalla legge Mosca, molti bei nomi della politica e del sindacato, compreso Giorgio Napolitano. I beneficiati giornalisti sono costati e costano all’Inpgi due montagne di quattrini: la prima è rappresentata dall’ammontare dei contributi figurativi sborsati di tasca propria (cioè nostra) per ricostruire le loro carriere dal punto di vista previdenziale; la seconda è rappresentata dal totale dei quattrini pagati ogni mese dall’Inpgi ai beneficiati dalla legge Mosca.

Cosa dovrebbe fare l’Istituto invece di chiedere al governo il disco verde per una riforma che non gli compete e che pare proprio mettersi sotto i piedi anche la sentenza della Corte Costituzionale?

1) – Farsi ridare dal governo le cifre spese per gli ammortizzatori sociali o almeno smettere di doverli erogare. Se gli ammortizzatori sono sociali è chiaro che a pagarli deve essere l’intera società, cioè lo Stato, in questo caso l’Inps, e non l’Inpgi. Quando ero consigliere generale dell’Inpgi ho talmente insistito su questo concetto che alla fine, dopo avere ottenuto il parere pro veritate favorevole di – se non ricordo male – un ex presidente della Corte Costituzionale, l’Istituto ha finalmente bussato alla porta del governo, che ha erogato qualche decina di milioni di euro per cassa integrazione e simili. E non si vede perché gli editori debbano essere esonerati dal pagare una larga fetta delle conseguenze del loro voler ridurre il numero dei giornalisti occupati.

2) – Farsi restituire dal governo la montagna di quattrini spesi per la legge Mosca.

3) – Battersi perché sia allargata la base degli iscritti all’Inpgi, cioè di chi deve essere considerato giornalista. Un esempio per tutti: sono troppi gli uffici stampa non registrati come testata giornalistica e quindi quelli che di fatto sono i suoi redattori non potranno mai fare il praticantato e quindi l’esame di Stato per diventare professionisti. Non potranno perciò essere riconosciuti giornalisti e considerati come tali. A dire il vero l’Ordine nazionale è disposto a riconoscere il praticantato anche ai redattori degli uffici stampa non registrati come giornali, ma c’è per esempio l’Ordine del Lazio che invece fa di testa sua e non riconosce nessun praticantato se non a chi lavora presso uffici stampa registrati come giornali.

4) – Dare magari l’esempio riducendo gli stipendi della dirigenza Inpgi, almeno di quella composta da giornalisti e non da impiegati e tecnici vari. Su diversi siti  sono state pubblicate tabelle con specificati i singoli emolumenti, indennità, gettoni di presenza, ecc., di una serie di soggetti che vanno dal presidente al singolo consigliere generale, di amministrazione, sindaco e membro di commissione. Il succo è che mentre l’editoria giornalistica è in crisi, il CdA e i consiglieri negli ultimi 8 anni hanno avuto un aumento medio degli emolumenti pari al 39%.

Fa uno strano effetto vedere che chi ti vuole ridurre la pensione intanto si aumenta i compensi di sua spettanza.

Pino Nicotri
Già consigliere generale Inpgi
Senza Bavaglio

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