Bassi salari e previsione di Marx

Lo scorso anno il Cnel commissionò al prof. Claudio Lucifora dell’Università Cattolica di Milano uno studio sul cosiddetto “woking poor”, cioè sul fenomeno sempre più diffuso di soggetti che hanno un lavoro ma che ciò nonostante vivono in stato di povertà. Vengono classificati in situazione di povertà quei lavoratori il cui salario è inferiore ai due terzi del salario mediano. Il valore mediano di una qualsiasi grandezza è quel valore che divide esattamente in due la popolazione che si intende indagare statisticamente, quindi nel nostro caso è quel salario per cui si registra che la metà dei lavoratori è nella parte superiore e l’altra metà nella parte inferiore. Lo studio arriva fino al 2011 e utilizza come fonte i dati dell’Istat e di Eurostat.

Cosa viene fuori da questa ricerca? Nel 2011 in Italia esistevano ben 2.640.000 lavoratori dipendenti e 756.000 lavoratori autonomi “working poor”, pari rispettivamente a circa il 15% e 16% del totale dei lavoratori di ogni singolo comparto.

Sono certo che se si leggessero questi dati a un politico, a un imprenditore, a un commentatore, è molto probabile che si riceva questa risposta: “è la crisi”, e sarebbe l’ennesima balla. Infatti nel 2007 quei dati erano inferiori di un solo punto percentuale: rispettivamente 14% e 15%. Quindi la situazione era pressoché identica.

Se si allarga l’analisi alle famiglie che, pur avendo al proprio interno uno o più soggetti che lavorano, si trovano in situazione di povertà (in questo caso quando una famiglia ha un reddito complessivo inferiore al 60% del reddito equivalente mediano delle famiglie. Equivalente nel senso che deve essere un reddito che consente il paragone tra famiglie composte da un differente numero di persone) scopriamo che nel 2011 queste famiglie costituivano circa l’11% del totale, nel 2007 erano già circa il 10%. Quindi anche in questo caso l’attribuire la colpa alla crisi è una pura balla, nella maggior parte dei casi detta in mala fede. E’ inutile precisare che i nostri dati sono peggiori della media Ue.

Ho voluto ripescare questa ricerca per sostenere ancora una volta che la povertà è la causa di questa crisi e non l’effetto, e ne ho avvertito l’esigenza perché ancora qualche giorno fa mi è toccato ascoltare in un convegno un ex direttore generale di Confindustria dire che “non si conoscono ancora bene le cause reali della crisi”. Beato lui! E beati tutti coloro che la pensano allo stesso modo o che danno tutta la colpa alla famigerata “finanza”.

Quello che è successo negli anni precedenti la crisi a partire dagli anni ’80, costituisce una sorta di ribaltamento della tesi marxista della “caduta tendenziale del saggio di profitto” quale causa, insieme ad altre, del crollo del capitalismo, che però rischia di determinare lo stesso esito.

Come è noto Marx sosteneva che il Capitalismo, una volta raggiunto l’apice del proprio sviluppo, sarebbe crollato per le proprie contraddizioni interne. Una di queste era “la caduta tendenziale del saggio di profitto”, a sua volta dovuta all’intensificarsi della meccanizzazione che avrebbe comportato una diminuzione relativa nell’impiego di forza lavoro, cioè di quella che, per il filosofo ed economista tedesco, era l’unica fonte del plusvalore e quindi del profitto. Non solo. Quella caduta avrebbe comportato lotte furibonde tra i capitalisti, e questo avrebbe accelerato il crollo.

Questa previsione non si è avverata perché Marx ha sottovalutato la capacità della borghesia di attivare innovazione, al punto da elevare oltre misura il “saggio di plusvalore”, per usare la stessa espressione marxista.

Paradossalmente, e se non si corre ai ripari, può succedere la stessa cosa prevista da Marx ma per una situazione opposta: a seguito del “rialzo del saggio di profitto”. Nel quarto di secolo trascorso dal 1980 allo scoppio della crisi, i profitti sono aumentati oltre misura sì da restringere fortemente la domanda per beni di consumo e quindi di investimento. Da ciò è conseguito un restringimento notevole dei mercati, e questo sì che può provocare “lotte furibonde” tra gli imprenditori per accaparrarsi quote di mercato, oltre tutto in presenza di nuovi soggetti come Cina e altri paesi in via di sviluppo.

Sarebbe una bella beffa per la borghesia, che prima è riuscita a sventare la funesta previsione marxista grazie alla sua intraprendenza e lungimiranza, e poi soccombe lo stesso per il motivo opposto a quello indicato da Marx.

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