Agnelli e Merloni, emblemi dell’ “epopea” borghese italiana

Venerdì 1 agosto 2014 la Fiat Spa ha ufficialmente trasferito la propria sede legale e fiscale all’estero. Qualche settimana prima la famiglia Merloni aveva ceduto le proprie aziende produttrici di elettrodomestici a una società Usa. Sono solo gli ultimi casi di un processo che vede parti importanti della grande borghesia italiana fuggire dalle proprie responsabilità non appena le cose per il proprio paese vanno male, e importanti fette del nostro sistema industriale prendere la via della proprietà straniera.

Entrambe le famiglie hanno espresso presidenti della Confindustria, quindi a buon ragione possono essere considerate emblemi della borghesia e dell’imprenditoria italiana, e il loro comportamento espressione di un comune sentire fra queste persone.

Nel loro comportamento c’è una denuncia, più esplicita per la Fiat, sottaciuta, ma probabile, per la Indesit, delle difficoltà di fare impresa, anzi “grande impresa”, in Italia, e noi non vogliamo contestare questa sensazione che in buona parte condividiamo. Quello che però vogliamo far rilevare è che l’attuale situazione italiana non può essere addebitata soltanto alla politica. La nostra classe politica se è per la maggior parte inetta e corrotta, lo è perché così l’ha voluta anche la nostra classe imprenditoriale. Il nostro “sistema” se è inefficiente e corrotto, lo è perché così l’ha voluto la grande impresa.

La nostra grande borghesia dal dopoguerra in poi, anziché porsi come classe promotrice della  modernità e del cambiamento, ha sempre preferito accucciarsi di volta in volta sotto il desco dei potenti di turno e accontentarsi di quello che gli veniva di volta in volta “lanciato”. Non è stata in grado, come invece è avvenuto in altri paesi capitalistici occidentali, assumere la leadership e influenzare la politica nazionale in senso modernista.

Fino a buona parte degli anni sessanta, grazie a una classe politica degna di questo nome e agli aiuti del Piano Marshall, l’Italia è riuscita comunque a crearsi un suo posto nell’economia e nella politica internazionale, nonostante fossimo uno dei paesi che aveva provocato e perso la guerra. A fine degli anni sessanta, la funzione di quella classe politica era conclusa, l’autunno caldo del ’69 rappresentò la sanzione storica di quella conclusione.

A quel punto le classi dirigenti del nostro paese avrebbero dovuto farsi avanti e imprimere il cambiamento necessario. Fra queste e prima di tutte la grande borghesia imprenditoriale. E invece si è preferito sostenere la strenua difesa dello status quo messa in atto dalla Dc e dai suoi satelliti.

Un suo ruolo lo ha senz’altro avuto il cosiddetto “vincolo esterno” (Nato e Vaticano), che ha fortemente limitato la sovranità del nostro paese; vincolo reso più cogente anche dall’ottuso e ambiguo comportamento della classe dirigente del Pci, la quale da un lato faceva professione di fede nel sistema democratico, dall’altro vantava pedissequamente e acriticamente le “grandi conquiste economiche e sociali” dell’Urss condividendo anche le posizioni di questa in politica estera.

Ma questo vincolo non sminuisce le grandi responsabilità della nostra borghesia, la quale comunque non è riuscita a imprimere il cambiamento necessario al “sistema paese” nel suo complesso. E così abbiamo avuto quello che alcuni storici hanno definito uno “sviluppo senza modernità”, destinato quindi a mostrare la corda prima o poi. Abbiamo dovuto tollerare l’acquisizione del consenso attraverso la dilatazione del debito pubblico, la compromissione con la delinquenza organizzata, fino a renderla ormai pressoché invincibile, l’estensione della cancrena della corruzione, tutti virus ritenuti “necessari” per conseguire il superiore bene della pace sociale e della stabilità politica, ma che ora ci presentano il loro conto pesantissimo.

L’unico che a quei tempi aveva la consapevolezza che si stava erodendo la base su cui era posta la nostra democrazia e il nostro sistema economico, e che la pace sociale e la stabilità politica andavano conseguite e rafforzate in altro modo, forse era Ugo La Malfa, ma la borghesia, al di là di appoggi e attestazioni di stima verbali, non lo ha mai eretto a proprio leader, preferendo sempre accucciarsi sotto la Dc, dispensatrice di ben più concrete gratifiche. Né a questa borghesia è mai venuto in mente di agevolare la creazione di una sinistra liberale concorrente e alternativa al Pci togliattiano.

La conclusione è che l’Italia attuale è il frutto anche del volere della nostra borghesia (Gianni Agnelli diceva “la Fiat è sempre governativa”), quindi non si capisce perché ora fugge sbattendo la porta … O meglio lo si capisce fin troppo bene: sono finite le “gratifiche”, perché il debito pubblico non è più una variabile indipendente. E così l’Italia corre sempre più veloce verso il declino, di cui il nanismo imprenditoriale è una delle manifestazioni. Né l’essere i calzolai e i sarti dei ricchi di tutto il mondo può essere la nostra unica reazione a questa deriva che pare inarrestabile. Solo una classe dirigente degna di questo nome potrebbe invertire questo processo.

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