FNSI/Ti senti vittima di questo contratto? Disturba pure il manovratore

Difficile coinvolgere un giornalista disoccupato sul tema del rinnovo/disdetta di un contratto che non lo riguarda più. A meno che non si ragioni sui motivi che ci hanno portato ad accettarlo.

La crisi della carta stampata e l’attuale crisi economica sono solo alcune delle cause delle sue condizioni al ribasso. Certo non si può ignorare il cambiamento epocale del sistema informativo e la sua perdita di credibilità, con le migliaia di lettori che cercano nel digitale alternative alla disinformazione di tanti media mainstream, fuori dal gossip, dal marketing e dai bavagli della politica.

 

Inutile dire che a questa rivoluzione annunciata molti editori sono arrivati tardi e impreparati, senza idee o tanto meno un piano industriale, con proposte improvvisate, contrattualmente e giuridicamente a dir poco discutibili, spesso senza neppure cercare, fuori dalle loro aziende e dal giro dei loro consulenti abituali, competenze e risorse in grado almeno di aggiornarli sulle peculiarità di un settore complesso non solo tecnologicamente e di un mercato ancora tutto da esplorare.

La sensazione, in realtà, è che certe aziende, in declino da decenni, abituate a vivacchiare su rendite di posizione magari garantite da vecchi assetti di potere politico (e confessionale) e sempre più chiuse in se stesse, in fondo non fossero neanche molto interessate a raccogliere la sfida, per inerzia o paura del nuovo, conservatorismo o semplice decrepitezza e incapacità di visione, ignoranza e incompetenza dei loro dirigenti.

Proprio queste aziende, che si sono trascinate senza offrire prospettive o stimoli professionali ai dipendenti al di là della certezza – finché durava – della busta paga a fine mese e di qualche regalo strappato con l’integrativo in tempi di “vacche grasse”, aziende che meno hanno investito sull’aggiornamento professionale e riconosciuto, voluto o saputo valorizzare le risorse interne anteponendo, ai meriti professionali, criteri meno trasparenti di avanzamento, hanno approfittato della crisi per licenziare, mandare in cassintegrazione o in prepensionamento.

In questi piccoli mondi, chiusi e autoreferenziali (torri d’avorio sempre più arroccate – la metafora della fortezza Bastiani raccontata dal collega Dino Buzzati guarda caso negli anni del fascismo – ma anche “istituzioni totali” in cui disciplinare e imbavagliare gli ultimi giornalisti in nome della linea editoriale o dell’ufficio marketing), con gli anni si sono incancrenite quelle situazioni patologiche che chiamiamo “mobbing”.

La crisi spesso è stata un’occasione ghiotta, oltre che per usufruite degli ammortizzatori sociali, ottenuti grazie alle loro entrature politiche, per vere e proprie rese dei conti interne, in cui premiare i più fedeli, magari con degli incarichi funzionali esistenti solo sulla carta (e in busta paga), ed emarginare o espellere gli altri, anche indirettamente, censurandoli, non facendoli più scrivere o viceversa, con la scusa dei tagli, aumentando il loro carico di lavoro, a detrimento della qualità e quindi del rispetto per i lettori.

A volte punirne alcuni è stato il modo per educare gli altri cento, un segnale minatorio per avvertire i pochi contrattualizzati rimasti a “rigare dritti”, incollati ai desk come polli d’allevamento alle batterie. Ma anche la nostra categoria ha qualche responsabilità, prima ancora del sindacato che la rappresenta o dovrebbe rappresentare, con le sue debolezze e in certi casi connivenze. “Abbiamo il sindacato che ci meritiamo”, potremmo dire.

O nonostante tutto, pur non meritandocelo – quanti sono gli iscritti? – abbiamo un sindacato. Come avremmo potuto averlo più combattivo se, al momento di decidere gli scioperi, tanti colleghi si defilavano? Ricordo un caporedattore – non l’ultimo dei neoassunti – nonché rappresentante del cdr, esclamare in un’assemblea indetta per decidere se scioperare e nel caso per quanti giorni: «Non siamo ricchi, abbiamo una famiglia da mantenere!». “Fregarsene” o “tenere un basso profilo” d’altra parte sono i consigli più ricorrenti nelle aziende, da parte dei colleghi amici.

Bisogna dire, purtroppo, che una parte della nostra categoria troppo spesso ha piegato la schiena, costretta a farlo o votata al suo asservimento, se non altro per riconoscenza verso quei padroni da cui ha ottenuto privilegi e gratifiche e da cui innanzitutto è stata assunta. Sì, perché un altro aspetto del problema, oggi più che ieri, è la modalità d’accesso a una professione sempre più organica a un sistema di interessi politico-economici cui risulta già abbastanza indigesta come “quarto potere”, figuriamoci come quel controcanto del potere che dovrebbe essere.

Pensando agli scioperi a oltranza fatti da altre categorie non certo ricche come la nostra, ancora una volta, il discorso torna al perché di questo contratto e di una situazione in cui tutto il mondo del lavoro, con i sindacati che lo rappresentano, sta arretrando. Per noi il pretesto è la crisi della carta stampata – in realtà pare che i ricavi pubblicitari per i grandi editori non siano diminuiti come si è voluto far credere; per gli operai di Pomigliano, la globalizzazione. Ma per tutti ormai è chiaro che a pagare questa crisi sono sempre i soliti e che viceversa c’è chi con questa crisi (finanziaria, economica, editoriale) si è arricchito.

La lezione, anche per noi giornalisti, non può che venire dal passato: se vogliamo i nostri diritti, e quindi anche un contratto migliore – non necessariamente in senso salariale –, ma soprattutto se vogliamo recuperare la dignità e il senso di questa professione, dobbiamo reimparare a lottare. In quanti siamo disposti a farlo?

David Gianetti

Candidato a Milano per Senza Bavaglio

 

 

 

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