REFERENDUM/Perché “giornalisti del no”

Ci siamo chiamati “giornalisti del no”  perché ci opponiamo con tutte le nostre forze al contratto-killer di una categoria che invece lo aspettava con ansia da quattro anni e che ha buttato a mare, è proprio il caso di dirlo, ben 18 giorni di sciopero. Ma se abbiamo deciso di indire una conferenza stampa è  perché la gravità di quello che è successo travalica ampiamente gli interessi di categoria.

Questo contratto, infatti, celebra il funerale del giornalismo libero, sancito dall’articolo 21 della Costituzione. Le aziende entrano pesantemente nelle redazioni e le condizionano. Sarà sempre più difficile garantire al paese un’informazione pluralista e di qualità.

La presa di coscienza, dunque, non poteva rimanere confinata tra le pareti delle nostre assemblee e impigliata nella liturgia dei nostri organismi rappresentativi. Vogliamo cercare di raggiungere, attraverso di voi, i cittadini di questo paese, vogliamo scuotere l’opinione pubblica attorno a una questione che è vitale per il buon funzionamento di una democrazia.

Chi siamo

Il nucleo iniziale di questa protesta è costituito dagli organismi sindacali di otto mezzi di informazione, sette quotidiani e una televisione. E cioè i Comitati di redazione di Corriere della Sera, Stampa, Messaggero, Nazione, Giorno,  Gazzetta di Parma, Adige e La 7. Sono questi che il due aprile scorso, all’indomani della firma dell’ipotesi d’accordo, emisero un comunicato congiunto dal titolo significativo: “Un contratto dal quale dobbiamo difenderci” (Documento n.1 della cartella stampa).

I giornalisti che queste testate aggregano sono in ogni caso più di 1.100. Chi vuole unirsi a noi, non ha che da prendere contatto con uno dei Cdr appena indicati, o inviare la sua adesione attraverso Il Barbiere della sera, il sito internet al quale ci siamo rivolti e che pubblica i nostri interventi.

Perché un colpo letale alla libertà d’informazione

Come ben sappiamo, l’istituto di ricerca americano “Freedom House” ha appena declassato l’Italia dalla categoria dei “paesi con la stampa libera”, a paese dove la stampa è “parziale”.

Siamo l’unica nazione europea ad essere stata retrocessa nell’ultimo anno e la nostra parzialità deriva, secondo l’indagine, dalla concentrazione di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida, dall’abuso di denunce per diffamazione contro i giornalisti e dall’escalation di intimidazioni fisiche da parte del crimine organizzato. Il nuovo contratto dei giornalisti crea le condizioni per scivolare ancora più in basso.

Elenchiamo i sette più importanti corpi del reato: possibilità di distacco senza consenso del giornalista, da una testata all’altra dello stesso gruppo, distante anche centinaia di chilometri. Diritto di licenziare i vicedirettori, che in questo modo saranno indotti a rispettare pedissequamente la linea informativa voluta dagli editori, i quali in Italia non sono propriamente puri, ma hanno interessi in molti altri settori.

Via libera a delle redazioni parallele, dette Unità organizzative redazionali, degli  “ufo” che potranno agire all’interno dei nostri giornali, con un proprio direttore di testata che inevitabilmente limiterà i poteri del direttore responsabile, e avrà rapporti privilegiati con l’azienda.

Questi ufo potrebbero essere in grado di far uscire il giornale nei giorni di sciopero e in ogni caso avranno un rapporto strettissimo con la pubblicità, la cui separazione dall’informazione in futuro sarà sempre più labile. Flessibilità a gogò, con prestazioni multitestata e multimediali obbligatorie e gratuite, più part-time, più contratti a termine, persino più lavoro in affitto, come se informazione e call center fossero la stessa cosa. Duro colpo agli scatti di anzianità, che erano la polizza d’assicurazione del giornalista con la schiena dritta. Indebolimento generale dei poteri del sindacato. E, ciliegina sulla torta, un maxi-piano di pensionamenti forzati di centinaia di giornalisti dai 58 anni in su: la rottamazione dei colleghi con maggiore esperienza, e spesso con maggiore combattività, decretata senza ottenere in cambio la garanzia di una sola assunzione.

E’ per questo che lo stesso Ordine dei giornalisti ha espresso  “forte preoccupazione per taluni aspetti del nuovo contratto di categoria che mettono a repentaglio l’autonomia e la deontologia professionale”. (Documento numero 2 della cartella stampa).

Nel distacco, meglio gli edili.       

Siamo sempre stati convinti che fosse assurdo applicare questo istituto, previsto dalla legge Biagi del 2003, a una professione come quella del giornalista. Avevamo ragione.

Abbiamo sollecitato una veloce ricerca da parte del Cref di Roma, un centro specializzato di giuslavoristi, e ne è venuto fuori come in nessuno dei contratti delle categorie assimilabili alla nostra (dirigenti dell’industria, del commercio, del credito) il distacco sia contemplato. C’è invece negli edili ma “previo consenso” del lavoratore. Per noi, muratori dell’informazione, il distacco è invece forzato e chi si oppone viene licenziato. Una follia.

Una pistola caricata sul tavolo,  pronta a colpire i giornalisti più combattivi e anche il sindacato: in questa ottica tutta aziendale ci si è “dimenticati” infatti di scrivere che dal distacco sono immuni i rappresentanti sindacali. Si è deciso che il distacco può essere “fino a due anni” e ripetibile. Un “temporaneo” che diventa così eternità e obbliga al trasferimento dell’intera famiglia del giornalista.

Se si voleva migliorare la norma, occorreva scrivere almeno che la durata non può essere superiore a sei mesi: inducendo così l’azienda a colmare il buco d’organico con un’assunzione (per un approfondimento, vedi documento numero 3 della cartella stampa).

Tagliate le unghie al sindacato.

“Cdr, ora sei un comitato di resa” è il titolo del quarto documento che vi proponiamo. Non è vero che l’articolo 34, che ne definisce i poteri, sia rimasto invariato: il Cdr non potrà più dire una parola sui licenziamenti per “giusta causa” invocata dagli editori. “Giusta causa”, lo abbiamo appena visto, può essere il rifiuto di ottemperare a un provvedimento di distacco, o anche l’aver violato il patto di esclusiva.

Un membro del Cdr non può essere trasferito, ma il distacco è un istituto diverso, e doveva essere espressamente prevista, lo ripetiamo, una specifica tutela. Il Cdr non può dare il suo consenso vincolante sulla videoimpaginazione, donata gratis dalle norme contrattuali agli editori, né sui piani multimediali, dei quali deve semplicemente prendere atto, non può più organizzare un’assemblea per la nomina di un nuovo direttore,  perché non gli si concede più il tempo per farlo. Il frazionamento della redazione, dove appaiono gli ufo delle Unità organizzative redazionali, indebolisce il sindacato, così come il direttore.

La rottamazione dell’esperienza.

Ci ha confidato un editore:  “Questo è un contratto per licenziare”. Proprio così. Si potrà ricorrere in massa alla legge 416 sugli stati di crisi che, per fortuna dei colleghi della televisione, riguarda soltanto la carta stampata.

Per ottenere lo stato di crisi, basterà dimostrare che la pubblicità o le vendite sono in calo nel paese, secondo indici prospettici nazionali. Una pacchia. Editori con i bilanci strutturalmente floridi da ben più di un lustro, potranno scaricare masse di colleghi con 58 anni e 18 di contributi, come le petroliere in mare quando vogliono lavare le cisterne.

Prima però, prevede l’articolo 33 del contratto, bisognerà mandare a casa i colleghi che hanno 59 anni e 35 di contributi, le condizioni per la pensione d’anzianità, ancorché raggiunte con il riscatto del servizio militare. La pensione d’anzianità da “spontanea” diventa “spintanea”,  perché l’alternativa è la cassa integrazione a 1000 euro al mese. Per un giornalista della carta stampata d’ora in poi sarà quasi impossibile arrivare ai 65 anni della pensione di vecchiaia.

E dire che tutti i giorni scriviamo sui nostri giornali che bisogna  lavorare più a lungo, per salvare il sistema previdenziale, i conti pubblici e anche l’integrità del sistema produttivo: lo hanno detto da Lorenzo Bini Smaghi della Bce allo stesso sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti.  Il prepensionamento è a spese del contribuente. Lo Stato, infatti, ha messo 20 milioni di euro per favorirlo. Fonti governative, non smentite dall’interessato, ci hanno confidato che il segretario della Fnsi Franco Siddi avrebbe voluto un fondo ancora più consistente, e dunque un maggior numero di licenziamenti. Sembra incredibile, ma è vero.

Noi diciamo che una parte di quei soldi potevano essere più utilmente investiti a sostegno del prodotto informazione, sull’esempio francese: per esempio per favorire la diffusione dei giornali nelle scuole. Ci sembra poi immorale che colleghi che hanno fatto  tutti gli scioperi proclamati dal sindacato non possano neppure usufruire della seconda tranche degli aumenti contrattuali, che scatterà a luglio del 2010.

La picconata agli scatti d’anzianità

Abbiamo la netta impressione che la delegazione al tavolo del negoziato con la Fieg abbia trattato la questione degli scatti di anzianità come se fosse paralizzata da una sorta di complesso di colpa, perché, ci è stato riferito spesso, eravamo l’unica categoria con 15 scatti biennali al 6 per cento rivalutabile.

Noi non abbiamo mai avuto tale complesso, dal momento che consideriamo la professione del giornalista di importanza non inferiore a quella del magistrato e il meccanismo degli scatti come la polizza di assicurazione che garantisce (garantiva) la progressione retributiva anche al giornalista che non è amato dalla direzione e dall’azienda.

Temevamo che questo contratto comportasse un sacrificio, ma  si è ceduto  davvero troppo. Scatti non più biennali ma triennali (eccetto i primi tre che restano biennali), non più rivalutati ma congelati, e per giunta dieci mesi di moratoria per chi sta per maturarne uno.

Ne soffriranno tutti, a cominciare dalle casse dell’Inpgi, nelle quali confluiranno contributi più bassi. I giovani non sono stati affatto tutelati: di qui alla fine della loro carriera il meccanismo concordato con la Fieg comporterà una perdita retributiva superiore al  40 per cento e anche loro hanno dovuto subire la moratoria.

Flessibilità a tutto spiano e nessun patto generazionale

La quota dei contratti a termine e di lavoro in affitto, nel vecchio contratto, poteva essere pari al massimo al 20 per cento degli assunti a tempo indeterminato con articolo 1.

Adesso una piccola azienda con 12 dipendenti può arrivare anche al 50 per cento, una che abbia fino a 50 dipendenti, può mantenere un 30 per cento di precari, e così via. Si sfruttano fino al limite massimo i posti di lavoro già esistenti: a chi ha un contratto di part-time, potrà essere richiesto lavoro supplementare aumentando l’orario fino al 30 per cento.

Anche i distacchi servono a non fare assunzioni, mentre, come già detto, non è stata conquistata nemmeno un nuovo posto di lavoro in cambio dei prepensionamenti. Più precari, vuol dire maggiore possibilità di ricatto, minore autonomia dell’informazione. I giovani non recuperano sulle retribuzioni dei più anziani: l’annunciato “patto generazionale” non esiste.

Cedimento su tutti i fronti

Un contratto sottintende  un do ut des, un meccanismo di scambio. Si poteva compensare, molto male, l’aumento di 260 euro in due tranche, che abbiamo ottenuto, cedendo sugli scatti di anzianità. Ma tutto il resto, con che cosa lo abbiamo scambiato?

Distacchi, licenziamenti dei vicedirettori, prepensionamenti dei giornalisti d’esperienza, indebolimento degli organismi sindacali, prestazioni obbligatorie per qualsiasi testata del gruppo e per qualsiasi prodotto, videoimpaginazione gratuita, multimedialità obbligatoria e gratuita (che rischia di incidere sulla qualità del lavoro,  perché è previsto che nello stesso orario si scrivano articoli per il giornale e contributi per il sito Internet,  ovviamente con notizie diverse, altrimenti verrebbe “ammazzato” il prodotto cartaceo del giorno dopo), tutto questo, con che cosa lo abbiamo scambiato?

C’è stata una grande, incomprensibile fretta di firmare questo contratto dal quale dobbiamo difenderci. Ci hanno raccontato che altrimenti rimanevamo senza più niente in mano, che non saremmo più stati pagati, o forse pagati in lire, perché sarebbe rimasto in vita soltanto il contratto del 1959. Proprio questo che poteva essere un punto di forza, per portare la classe politica dalla nostra parte, è stato trasformato in un punto di debolezza.

La verità è che abbiamo venduto le nostre tutele in un momento di grave crisi economica. Potevamo accettare un sacrificio retributivo, ma tutto il resto no. 

Votare no, anche se è un referendum-beffa

Il Congresso della Federazione della stampa a Castellaneta, nell’autunno del 2007, si era concluso con una mozione unitaria dal significato inequivocabile: sull’ipotesi di accordo che sarebbe stata raggiunta con gli editori, i giornalisti si sarebbero dovuti pronunciare con un referendum, vincolante per l’entrata in vigore del contratto, altrimenti era inutile parlare di ipotesi d’accordo.

Le trattative sono state riprese il 20 marzo del 2008 e sono durate un anno, fino al 27 marzo scorso. Dall’autunno 2007 al marzo 2008 si sarebbero dovute scrivere le regole del referendum, che doveva essere un pungolo, per arrivare a un buon accordo. E invece non lo si è voluto fare.

Le regole sono arrivate il 21 aprile 2009, quasi un mese dopo  la firma di un contratto che si è voluto far entrare in vigore il  1 aprile e ratificare con il governo il 5 maggio. Un vero golpe, un tradimento del congresso di Castellaneta. Se si raggiungeva un’intesa a fine marzo, il contratto sarebbe dovuto scattare il 1 giugno. La stessa Consulta nazionale dei Cdr è stata chiamata a pronunciarsi sul contratto il 3 aprile, quando questo era già in vigore.

Eppure nel documento finale approvato da un’altra riunione della  stessa Consulta, nel dicembre 2008, si era chiesto che prima ancora  di arrivare alla fase finale del negoziato i giornalisti italiani venissero messi in condizione di conoscere la parte economica e quella normativa dell’accordo che si profilava.

Tutto suggerisce l’idea di una beffa, persino la data scelta per la consultazione, il 29 e 30 maggio, alla vigilia di un ponte. E alcuni che pure respingono questo contratto, per protesta, considerano il non andare a votare la scelta migliore. Una scelta rispettabile, che però non è quella che a grande maggioranza abbiamo deciso di operare. Dobbiamo andare a votare, e votare no. Nella speranza, l’unica che ci rimane, che possano essere riscritte alcune di queste regole, le più nefaste. A cominciare da quella sul distacco, che deve tornare volontario.

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