La tassa sulla moda? Ce la siamo voluta

TassaMah, io credo invece che ce la siamo voluta.
Certo, è vero che i 60 euro non impediranno a signore bene, perdigiorno e “maree di pubblicisti con introiti da altre professioni” (attenzione, però: il pubblicista è per definizione di legge uno che ha introiti prevalenti da altre attività, l’anomalia è casomai che il libero professionista che vive di giornalismo sia un pubblicista, visto che oggi l’accesso all’esame di stato non è più impedito dall’ostacolo della mancata contrattualizzazione) di accreditarsi e di “giocare” a fare i giornalisti alle sfilate. Ma se costoro riescono a entrare esibendo, gabella a parte, il famigerato “tesserino” professionale, penso che stia a noi guardarci negli occhi e maledire il mai abbastanza esecrato giornalistificio di cui noi stessi siamo parte integrante.
Non vedo niente di male nel fatto che qualcuno tenti di introdurre dei filtri, l’andazzo lo conosciamo tutti. Da sempre ci lamentiamo dei tartinari che svuotano i vassoi e squalificano la categoria, ma poi ci indigniamo se c’è chi tenta di metterli alla porta.

La verità è che, purtroppo, l’ingresso a pagamento è una soglia logica sacrosanta.
I 60 euro sono il doppio, il triplo, il decuplo di quanto il giornale paga me per andare alle sfilate? Bene, allora siccome sono un professionista/professionale e non lavoro in perdita, io alle sfilate per lavorare a rimessa non ci vado. Così facendo perdo la collaborazione? Pazienza, io lavoro per guadagnare, mica per perderci. Che senso ha lavorare per scapitarci?
Sia abbia il coraggio di attendere che la Camera della Moda capisca l’errore e si accorga che con l’ingresso stampa a 60 euro entrano pochi giornalisti veri e parecchi, ma ricchi, sedicenti tali. Contenti loro…
Si abbia il coraggio di riconoscere che il lavoro giornalistico sottopagato, o addirittura, come in questo caso, pagato per essere esercitato (grottesco), è un non lavoro, anzi un hobby costoso.
Del resto, ripeto, a che santo deve attaccarsi un ente per arginare la folla ringhiosa, in cui i giornalisti veri si mescolano con i finti e si sostengono l’un l’altro, in una logica perversa da “todos caballeros”?
Insomma, il problema sta a monte. La pretesa dell’accredito da parte di una testata nasce dal fatto che il numero dei pretendenti che si presentano ai cancelli è ovunque abnorme, una pletora di teorici “aventi diritto” (cioè giornalisti con tesserino) in cui è divenuto quasi impossibile distinguere il grano dalla lolla. Poi c’è l’esercito nascente dei cosiddetti “blogger”, di coloro i quali, cioè, con la scusa della “libertà di espressione”, pretendono di svolgere l’attività giornalistica senza qualifica, senza obblighi deontologici e senza responsabilità. A fronte di costoro, noi giornalisti che atteggiamento intendiamo tenere? E peggiore il blogger che fa il giornalista abusivamente o la signora bene che è stata iscritta non si sa come all’elenco dei pubblicisti?
Penso che su questi temi la categoria, e in particolare SB, dovrebbe fare una riflessione seria, senza paraocchi nè riflessi pavloviani.
Ciao a tutti,

Stefano Tesi

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